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I BENI COMUNI: UN FONDAMENTO PER L’AUTONOMIA TRENTINA

    “L’unico scopo per il quale i nostri antenati hanno fatto le leggi è questo: conservare senza danno i propri concittadini” (dal preambolo alla Carta di Regola della comunità di Trambilleno, anno 1578). Il buon legislatore, dunque, ha per fine soltanto la salvezza -fisica, economica, morale – dei suoi governati. Deve porsi come traguardo di ogni decisione il rispetto per quella che era chiamata “incofumitas” dei cittadini. La parola latina significa integrità, non essere rovinati dalle “calamitates”, cioè dalle disgrazie
    Sono nominati i cittadini – la parola antica diceva “i vicini”, quelli che fanno parte dello stesso “vicus” (il villaggio) -. E’ chiaro che sono in causa le persone. Nella nostra cultura la persona non è immaginabile fuori del proprio ambiente, delle sue tradizioni, delle sue proprietà, in una parola: della sua comunità. L’uomo astratto non esiste, perché sarebbe irreale, sradicato, in un certo senso solo “teorico”.
    Oggi noi viviamo in uno stato organizzato. E’ la società moderna, nella quale si èmolto allargato il concetto di “statale” – benché oggi si tenti di ridurne i confini -. Nella mentalità corrente abbiamo diviso il mondo in cui viviamo fra “pubblico” = statale, e “privato” = individuale. A far maturare tale distinzione ha contribuito la nascita e l’affermazione dello stato assoluto e centralizzato (da noi agli inizi del 1800). Esso ha avuto la sua peggiore realizzazione nello stato dittatoriale (in Italia il fascismo, in Germania il nazismo, in Urss lo stalinismo comunista). Dalla scuola ai bambini, dai prodotti ai mezzi di comunicazione tutto allora è diventato “statale”.
    Come reazione legittima a tale visione centralistica gli stati usciti dalle dittature hanno accentuato nei rapporti interpersonali l’individualismo e la stima gelosa per la proprietà privata; pur conservando – come nei sistemi totalitari – un discreto controllo sui nodi strategici della vita sociale e economica.
    Ma non è stato sempre così. Una volta, per quanto riguarda il possesso (parlo specialmente della proprietà terriera, in quanto quella finanziaria era di pochi: le monete erano rare, il boom edilizio non esisteva) vigeva una regola che oggi è rimasta quasi solo come una reliquia negli USI CIVICI. Essa distingueva tra “beni divisi” (i campi, i prati, le case, gli orti, il bestiame) che appartenevano ai singoli e erano oggetto di compravendita o di permuta o di affitto; “beni statali” come le strade e alcuni ponti (ad esempio la “via imperiale”); e “beni indivisi” pubblici, che appartenevano alla comunità locale, o meglio alle famiglie residenti, rappresentate dai capifamiglia (quei beni indivisi erano i pascoli, le malghe, i boschi, le acque, spesso i ponti minori, la segheria, il molino, il forn famiglia, per il solo fatto di appartenere a una ben definita comunità di paese, aveva diritto a usare quei beni, che erano realmente di tutti. Non del comune quale è inteso oggi, ma della comunità. E responsabili dell’uso, della conservazione, dell’accrescimento dei beni indivisi erano i capifamiglia. Essi, riuniti in assemblea (allora si diceva “in piena regola”) stabilivano come quelle realtà dovevano essere usufruite, scrivendo o seguendo certe norme codificate nelle “Carte di Regola”o). Sono questi “beni indivisi” gli antenati degli usi civici.
    Per secoli essi hanno consentito alla nostra gente – povera, ma in Trentino non miserabile come potevano essere in altre zone il mondo contadino o il proletariato urbano
    – di vivere con dignità e sicurezza. Ogni che tutti i paesi delle nostre valli trentine si diedero, a partire almeno dal 1200, fino agli inizi del 1800. Le Regole restarono in vigore fin quando lo stato non divenne assoluto e centralizzato. In pratica fin che qui da noi durò il Principato Vescovile, abolito giusto 200 anni or sono nel 1803. Esso era durato 799 anni come entità statale che concedeva ampi spazi di autogoverno a tutte le comunità del territorio. Questo avveniva non solo per necessità (molte valli erano lontane dal centro e quasi inaccessibili), ma per scelta deliberata.
    Il cuore delle Carte di Regola era proprio la consapevolezza di avere dei beni che appartenevano a tutti. Essi venivano difesi: nella Regola di Mortaso (1558) al Cap. 2 si legge: “Siano eletti doi consoli.., i quali siano persone idonee habili, laudabili, atte, sufficienti et esperte e laudate dalla maggior parte delli detti vicini a reggere, trattar e ben governar, difendere e conservare la vicinanza, università e communità e suoi beni”. Gli stessi beni collettivi erano amministrati in modo pieno dalla comunità: nella Regola di Fisto e Ches (1537) è scritto al Cap. 10: “Stabilirono e ordinarono che il 25 marzo gli abitanti delle ville predette siano tenuti… a costituire tre uomini loro vicini come sindaci sufficienti, procuratori, fattori e negoziatori loro propri, gestori della loro comunità”. I beni dovevano essere per il possibile non solo conservati, ma anche incrementati: nella Regola di Cellentino e Strombiano in Vai di Sole (1456) è detto: “Quel bosco lo riserviamo come gaggio per i prossimi dieci anni… Passato quel periodo possono prendere legna, con la condizione di non disboscare”. Nella Regola di Romeno, Don e Amblar (1459) si sente la responsabilità di quegli antichi amministratori: Un taglio senza criterio di legname) “sarebbe un destruere a fatto detta valle et gazi, qualli conservano et debbano conservare alli bisogni et necessitadi”. Alle nuove generazioni è data consegna di conoscere i beni collettivi per poterli poi bene amministrare: così nella Regola di Livo (1731) èraccomandato (Cap. 86): “In capo d’ogni dieci anni li giuramentarii del commune, assumendo secco altri vicini, e massime diversi giovani, siino obligati andare sì nelle montagne come atomno agli gazzi et campagne e dar revista alli termini del commune, mostrando quelli a’ giovenetti acciò se ne ricordino”. I beni indivisi sono garanzia contro la povertà: così nella Regola di Pejo (1522): “Se ci sarà un poveretto che non ha figli o figlie per portare qualche fascio di legna, possa prenderne su una certa quantità, con moderazione (nel bosco protetto della comunità)”. La gestione dei beni collettivi è in mano ai capifamiglia, che sono eletti liberamente per amministrare durante l’anno quanto è della comunità; essi devono accettare l’elezione, come recita la Regola di Terlago (1424): “Quelli che sono stati eletti a un incarico di regola devono giurare di accettare prima di andarsene dall’assemblea; se rifiuteranno, saranno multati e ciò non ostante costretti a giurare di accettare; se rifiuteranno ancora, la comunità dovrà andare alle loro case a prender pegni e a multarli”. Tanto sembrava importante il dovere di tutti di partecipare in prima persona all’amministrazione della vicinia. lì diritto-dovere di accettare le cariche pubbliche era riconosciuto dall’autorità principesco-vescovile, come appare su tutti i documenti di Regola: “Avendo accolto con favore le suppliche dei nostri sudditi, con la nostra autorità e col nostro patrocinio abbiamo deciso che quella bor carta di Regola sia da confermare in perpetuo, da approvare e da ratificare” (così scriveva in calce a una Carta il cardinale Gaudenzio Madruzzo nel 1604). Alla base della comunità di paese v’era quindi un fatto legale e riconosciuto: nella Carta di Monclassico in VaI di Sole (1495) si trova la seguente conferma: “Tutte le questioni et differentie de vie, termini, sterleze, aquedutti, fossati et altre cose da esser decise per gli huomini dal sacramento delle ville secondo la fomma del statuto siano decise per gli homini dal sacramento della ditta villa de Monclassico, et nissuno si possi apellare ad altma regola”. Come afferma la Regola di Volano (1474) “per il bene comune e per la conservazione dei beni e delle cose di detta comunità” gli eletti dall’assemblea dei capifamiglia possono agire “con piena libema speciale e genemale amministrazione”. E’ questo il dato fondamentale: l’autonomia, segno della maturità di un DoDolo che si autoqoverna senza enti intermedi, senza burocrazia. Perfino nelle faccende di liti e contese fra compaesani la difesa dell’autonomia è gelosa (Carta di Pejo 1522 Cap. 92): “Se ci samanno beghe e discordie nella comunità, dodici incaricati dalla Regola devono accollarsi la soluzione di quelle risse e dissensi e far mettere d’accordo i contendenti… senza ricorrere ad altri Uffici”.
    Leggendo i documenti di archivio, si notano a decine le vendite di beni divisi, gli affitti, le transazioni fra privati; mai si trova una vendita di “beni indivisi”. Caso mai, si trovano permute o affitti dietro compenso per la comunità che rimane padrona dei beni. Soltanto verso la fine del Principato di Trento qua e là compare qualche vendita di beni collettivi per pagare i debiti delle guerre del XVIII secolo. Ma con grande sofferenza e con la ricerca di tutte le approvazioni legali. Sempre quegli antichi testi fanno capire cosa significassero per i nostri vecchi i beni di uso civico, che naturalmente allora non portavano tal nome, ma si chiamavano “gli indivisi” o “il commune”.
    La legislazione paesana urtava la burocrazia austriaca, francese e bavarese, come urtò in seguito quella fascista. Tuttavia almeno in Trentino l’affidabilità della consuetudine
    – che è l’anima delle Carte di Regola – è tale che territorio e risorse non vengono del tutto riassorbite dall’autorità centrale, ma sono lasciate in delega alle “regole” locali: da qui l’istituto degli usi civici, sopravvissuto nonostante la contrarietà dello stato centralizzato. Anche le forme statuali recenti non sono riuscite a far sparire del tutto le tracce di insediamenti e possessi “arcaici”, e relative consuetudini; è il caso degli esiti della legge del 1927 sulla regolamentazione degli usi civici. E’ noto che il tentativo fascista del 1927 è stato più volte corretto dallo Stato repubblicano fino alla Legge di montagna del 1971: ma le correzioni sono sopravvenute sulla base di una scarsa attenzione alle realtà locali. Nel territorio trentino il processo di razionalizzazione ha comportato entro il secondo dopoguerra la creazione di più di cento ASUC distribuite sui 223 Comuni della Provincia, ma purtroppo anche la retrocessione delle vicinie sopravvissute a associazioni di diritto privato.
    A tanti anni di distanza l’esperienza delle Regole ha dunque lasciato un erede:
    l’istituto degli usi civici, qualificato in modo molto sommario e schematico come “diritto di godimento che tutti gli abitanti di un Comune o di una Frazione hanno – come cittadini -sopra determinate terre appartenenti al Comune o alla Frazione o ai privati. Tali diritti consistono in varie forme di uso e di godimento, come pascolare e abbeverare il bestiame, raccogliere legna per uso domestico, cavare ghiaia o sassi”. Durante il Medio Evo e per quasi tutta l’Età Moderna il Principe Vescovo lasciava questa libertà di godimento, pur essendo egli sovrano del territorio. Caduto il feudalesimo e affermatasi la dottrina liberale di derivazione inglese, dal XVIII secolo in poi gli usi civici vennero osteggiati, perché sembrava che limitassero la proprietà pubblica o privata: Nel XIX secolo essi furono sul punto di scomparire.
    La Legge provinciale 25 luglio 1952, n. 991, cercò di farsi più attenta ai beni comunitari, prescrivendo all’art. 34 che “nessuna innovazione è operata in fatto di comunioni familiari vigenti nei territori montani nell’esercizio dell’attività agro-silvopastorale; dette comunioni continuano a godere e a amministrare i loro beni in conformità dei rispettivi statuti e consuetudini riconosciuti dal diritto anteriore”. Ciò andava nella giusta direzione, perché ammetteva che accanto al pubblico e al privato potesse sopravvivere un “pubblico sociale”, nella forma della proprietà comunitaria.
    Tale proprietà “postula il primato della comunità sul singolo, perché ritiene la comunità un valore di altissimo rilievo, in quanto basata sulla solidarietà. Chi fa parte della comunità (di un paese, di una frazione) è un personaggio che sa di ricevere un’integrazione nell’ambito protettivo della sua comunità; egli sente di essere “persona” solo all’interno di una comunità, essendo in sintonia e in congiunzione con il suo gruppo” (T. GROSSI, Assolutismo giuridico e proprietà collettive, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 19/1 990, p. 544).
    Ritengo che gli usi civici siano importantissimi e vitali anche oggi, al contrario di quanto la recente legge provinciale sostiene. Cambiano le funzioni, con il mutamento dell’economia e della fisionomia sociale della nostra terra; ma non deve mutare il soggetto che amministra i beni collettivi, cioè la famiglia (i “veri” residenti, con diritto di voto, di veto e di proposta). Gli ambiti di interesse non saranno più soltanto quegli antichi, ma soprattutto la difesa delle acque, l’attenzione al paesaggio, la guerra agli scempi urbanistici, un sano senso dell’ecologia, la tutela del bosco. Va quindi riscoperto il valore “sociale” dei beni indivisi. E bisogna combattere “l’ignoranza e l’arroganza” della burocrazia (come dice Pietro Nervi) con la consapevolezza che abbiamo da sempre la capacità e il diritto di autogovernarci. Sarà perciò necessario in ultima istanza usare tutti gli strumenti legali per difendere un nostro “bene”, costitutivo dell’autonomia.
    In conclusione, sono personalmente del tutto a favore della sopravvivenza – meglio, della rivitalizzazione in forme attuali e realistiche – degli usi civici non comunali, ma comunitari, per vari motivi: