Il carro

Autore: Arrigo Franceschi

Ormai nei nostri paesi e sulle nostre strade da quasi trent’anni non se ne vedono più. Sono stati smontati o, quantomeno, relegati in qualche angolo delle vecchie aie o dei portici delle nostre case. Qualcuno li ha messi in bella vista come portafiori o ne ha usato le ruote per movimentare la facciata della propria abitazione. Però l’inconfondibile rumore che essi facevano quando passavano davanti o sotto casa, il Pascoli l’ha chiamato “il rombo delle ruote“, non si sente più: adesso transita degli enormi mezzi che rombano lo stesso, però non con le ruote, che hanno velocità e portata più di dieci volte superiori e che fanno un fracasso, e spesso un odore, molto più fastidioso. Sto parlando del carro.

Esso è stato per millenni, dopo la scoperta della ruota, il principale mezzo di trasporto; diventato nel corso dei secoli, dai tempi dei romani ai giorni nostri, più leggero e più robusto, ha sempre avuto una funzione indispensabile per l’evoluzione della civiltà. Nei nostri paesi quasi tutte le famiglie ne possedevano uno. Il carro rustico tipico della nostra zona è quello a quattro ruote: esso è composto da due parti: il “broz”  davanti e la “coa” dietro. Queste, unite da una stanga molto robusta ed allungabile detta “palanchera“, assieme a tutta una serie di supporti, venivano usate per i trasporti in campagna o, comunque, su strade non molto dissestate; la parte anteriore da sola, il “broz“, serviva per i trasporti dalla montagna. Il traino veniva effettuato con due buoi, con due mucche, con un solo bue, un cavallo e, raramente, un mulo. A Favrio le famiglie più abbienti avevano un paio di buoi, le altre usavano un solo bue o due mucche, mentre i cavalli presero piede solo quando cominciarono ad essere usate le ruote in gomma. Se come forza motrice venivano usati i bovini allora, per assicurarli al carro, ci si avvaleva del “temon” con il “giof“, il “segiòvi” e la “giòncola“, mentre, per i cavalli, l’attrezzatura consisteva nelle “stanghe“, nei “tiranti“, nel “balanzin“e nel “comacio“.

Per i trasporti di pianura il carro era attrezzato con lo “scalader“, un vero e proprio piano di carico, su cui si trasportavano fieno, frumento, legna ecc…, o con la “bena“, destinata quasi esclusivamente per il letame. Per il trasporto di sabbia o di sassi veniva usato un cassone che con un meccanismo particolare poteva essere aperto su uno dei lati e ribaltato. La portata era assai limitata: 15 quintali al massimo.

Per i trasporti dalla montagna sul “broz” venivano appoggiate due robuste stanghe, i “palanchi“, che toccavano poi per terra. Su questa struttura a strascico venivano caricati il fieno, legna o strame “farlet“, di solito contenuto nei “retei“. Il viaggio era un po’ avventuroso e qualche volta, date le condizioni delle strade, tutta l’apparecchiatura finiva a gambe all’aria. Nei punti più ripidi, oltre ai freni, per rallentare l’andatura venivano infilate delle catene sotto i “palanchi“.

Il carro era costruito in legno, escluse le parti di fissaggio e quelle soggette ad usura che erano in ferro “la sil” ed il “sercio” ed era realizzato in farmacie specializzate: molto nota in zona era quella della famiglia Festi a Fiavè.

Vale la pana di ribadire che il carro era l’unico mezzo di trasporto esistente e quindi era usato per qualsiasi scopo compreso il trasporto dei malati.

Mi auguro che la lettura di queste poche ed incomplete righe possa far piacere alle persone di una certa età che rivivranno uno squarcio del passato e, nel contempo, possa in qualche modo far capire ai giovani quanti e veloci cambiamenti si sono verificati in questi anni.

Un ringraziamento particolare a Lucio Sottovia ed Aldo Collizzolli  per la collaborazione.